Athar Jaber

Il dolore diventa arte. La mostra di Athar Jaber

Written by Ilaria Conti 
Cittá Metropolitana di Firenze
2 July 2015

“Athar Jaber è un artista dalla triplice biografia, caratterizzata, in primis, da un dislocamento storico: quello dei suoi genitori, artisti iracheni stabilitisi in Italia nell’impossibilità di rientrare nel proprio Paese, lasciato per motivi di studio, a seguito della salita al potere di Saddam Hussein. Athar è figlio della prima generazione di diaspora irachena, di una famiglia di intellettuali in volontario, ma necessario, esilio. Nato a Roma e cresciuto a Firenze, è però italiano. “Parlo e sogno in italiano”, sottolinea l’artista a conferma delle proprie radici e della sua “seconda” genealogia. Professionalmente, infine, è un nord europeo: per i suoi studi musicali presso il Royal Conservatoire dell’Aia e Rotterdam e per la laurea presso la Royal Academy of Fine Arts di Anversa, dove ora insegna scultura.

Una storia personale tanto ricca rivela una propria problematica complessità se posta di fronte a una domanda: quella dell’identità nazionale dell’artista. In quanto figlio di cittadini iracheni, egli è nato in un contesto familiare di displacement culturale e consapevolezza politica. Al di fuori dell’ambito domestico, il contesto sociale in cui è cresciuto è però etnicamente omogeneo e pienamente italiano. La sua vita adulta infine, di professore e artista devoto alla scultura in marmo, ha preso forma in un tertium quid centroeuropeo.

Dove risiede dunque l’identità di Athar Jaber? Nel marmo, si potrebbe dire. In quanto materiale familiare, quasi domestico, per un adolescente di Firenze cresciuto disegnando le sculture della propria città. Ma non solo. In questo materiale immanente, duraturo, solido, ma al tempo stesso malleabile e fluido, Athar ha trovato il proprio adeguato interlocutore. La lenta, faticosa, attenta lavorazione che esso richiede risponde a una necessità riflessiva, quasi catartica dell’artista. Il dialogo con il materiale è diretto, corporeo, costante. Il marmo consente di riflettere, dubitare, mettere a prova la propria dedizione, esaminare meticolosamente direzione e integrità artistica. Al contempo, la natura tradizionale e storicamente identitaria del medium pone Athar di fronte alla prova del riplasmarne l’iconografia storica, così da poter incarnare temi più urgenti.

Nell’opera di Athar Jaber, la scultura in marmo tradizionalmente concepita si dilania sotto gli occhi di chi guarda, si apre. Ma a cosa? All’entropia, risponderebbe l’artista. Da intendersi aldilà del disordine molecolare, riflettendo sull’intima essenza etimologica del termine: dal greco antico ?? (en), “dentro,” e t??p? (tropé), “trasformazione.” Una trasformazione interna, dunque, si schiude allo sguardo nelle opere di Athar. L’occhio, abituato al lineare, prevedibile adagio della scultura classica, assiste a una metamorfosi del marmo che fa emergere cambi repentini di superficie, non-finito, deformità, mutilazioni. Attraverso la propria entropia scultoria, Athar discute della condizione umana, delle violenze e guerre di questa, dei suoi handicap e orrori. “Mi piace riflettere sulla nostra natura e la nostra natura non mi piace”, afferma l’artista. Trascendendo la tradizione iconografica, le opere indagano lo status esistenziale umano e al contempo in esso trovano l’intima forza in grado di parlare all’individualità di ciascuno.

Nelle serie di sculture dal titolo sobrio e musicalmente evocativo Opus 4 (2009-2013), le qualità mimetiche del marmo sono spinte al limite estremo in una ricerca che, pur affondando le radici in un virtuosismo tecnico, lo trascende, per presentare un nodo figurativo che lotta con lo sguardo, così da farsi scoprire nelle proprie singole componenti. In queste serie, il ‘fare’ dell’artista ed il ‘fatto’ della scultura si complicano in un in fieri incessante che sfida la capacità della visione di afferrare un tutto coerente. Questo è il congegno che Athar innesca applicando il concetto musicale di cadenza d’inganno, un escamotage storicamente volto a rinviare il piacere della conclusione di un brano, a posticiparlo. Athar sottrae questo piacere, ma, in fine, non lo restituisce. Ad esso sostituisce invece la Unheimlichkeit, ovvero il perturbante freudiano: i dettagli anatomici riconoscibili sembrano consentire accesso all’opera, la cui totalità però rimane sfuggente e misteriosa, respingendo ogni sguardo complessivo. La scultura resiste così alla comprensione, generando in chi osserva una inquietante vertigine cognitiva.

Nelle più recenti serie, ancora dal titolo Opus 5, il marmo si fa scultura al contatto con acidi e proiettili, secondo una sapiente e accurata regia dell’artista. Tecnica, materiale e soggetto divengono così un unicum concettuale inestricabile, una triade che sussiste solo in presenza dei propri intercomplementari. Questa nuova fase della ricerca di Athar si innesta nella tradizione della deformazione di armonia e bellezza che per l’artista costituisce il leitmotiv dell’evoluzione artistica visiva e musicale occidentale. Così facendo, Athar problematizza la presunta natura desueta del marmo come medium. “Spesso sento dire che quello che faccio è anacronistico perché lavoro il marmo e uso figure umane. Ma anche la musica classica contemporanea fa ancora uso di orchestre, violini, flauti, pianoforti”, suggerisce egli a riguardo.

Nel proprio viaggio personale ed artistico, Athar naviga una grande varietà di contesti visivi e culturali: dal modernismo medio orientale dell’arte dei propri genitori, entrambi pittori affermati, al Rinascimento fiorentino, dagli studi anatomici moderni alle immagini contemporanee di guerra, dalla musica classica al “sensational aspect” teorizzato da Gilles Deleuze. Queste compresenze europee e extra-europee, antiche e contemporanee, private e pubbliche, costituiscono le fondamenta delle complessità marmoree dell’artista. Grazie all’unione di una sapiente e calibrata conoscenza tecnica ed una ferrea e incessante ricerca artistica, le opere di Athar Jaber svelano la crudeltà della bellezza e si rendono, per usare le parole con cui Thomas Mann glossa i sonetti di Michelangelo, ‘poesia allo stato selvaggio’”.

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